Intervista a Fabio Calvetti (seconda parte)

Continua la pubblicazione dell’intervista concessa al nostro sodalizio da questo importante Artista valdelsano. Stavolta vengono ripercorse le sue attività durante gli anni ’80.

I. Da un certo momento la sua attività espositiva sembra rarefarsi. A cosa è dovuto questo fatto?

F. C. Appena conseguito il Diploma dell’accademia, sono dovuto partire per il servizio militare, e questa circostanza mi ha tenuto lontano dal mondo artistico che avevo frequentato fino a quel momento. Come spesso accade in questi casi, ho potuto così guardare con occhi nuovi, e più critici, il lavoro che avevo fino a quel momento portato avanti. Mi sono quindi reso conto che avevo bisogno di trovare modalità espressive più personali, in qualche modo perfino azzerando quello che avevo realizzato.

I. Come si manifesta questo momento di crisi nella sua produzione artistica?

F. C. Ho abbandonato d’emblée la pittura ad olio su tela, che era la mia cifra stilistica precedente. Paradossalmente ho preso questa decisione subito aver vinto un concorso con un’opera fatta con questa tecnica.

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Donna davanti al grande quadro a strisce, 1986, olio su tela, cm. 90×90

 

In quel momento infatti non mi pareva più rilevante il gradimento del pubblico, ma desideravo trovare la mia strada. Tra l’altro in quell’opera questo mio stato d’animo è già evidente, perché sia il soggetto scelto – un nudo femminile colto in un atteggiamento quasi introspettivo, – sia la presenza di elementi geometrici per me inusitati fino a quel momento, e che non ho poi ripreso nei quadri successivi, segnalano questa mia forte esigenza di rinnovamento.

I. Tra l’altro nei primi anni ’80 la sua vita cambia anche dal punto di vista degli impegni professionali.

F. C. Certamente, infatti nel 1982, dopo che avevo intrapreso la carriera dell’insegnamento nelle scuole, decisi di partecipare a un concorso pubblico nel Comune di Certaldo per un ruolo particolare, ovvero quello di insegnante per la scuola comunale di Disegno. Ho affrontato questo esame con molta curiosità, senza sapere fino in fondo cosa questa mansione avrebbe comportato. Sta di fatto che, una volta vinto il concorso, seguendo le indicazioni dell’Amministrazione che voleva innovare l’offerta formativa, mi trovai a dover fare un progetto sull’educazione all’immagine da svolgere in orario scolastico e extrascolastico. In Valdelsa si trattava di una novità perché un’esperienza simile esisteva solo a Pistoia. Mi viene da ricordare con affetto il luogo in cui questa esperienza maturò: si trattava della villa di Canonica, che purtroppo versa oggi in gravissime condizioni, ma che allora fu attrezzata nei suoi saloni per ospitare varie attività, come grafica e ceramica. Nonostante la suggestione degli ambienti, alcune difficoltà logistiche portarono dopo pochi anni a trasferire le attività, tra l’altro arricchite da laboratori video e teatrale, all’interno della scuola materna nella stessa località di Canonica. Mi verrebbe da dilungarmi ricordando alcuni dei miei collaboratori di quegli anni come Donatella Bagnoli, vocata all’attività con i bambini più piccoli, mentre Giovanni Crippa e Katia Massai curavano il laboratorio di Ceramica; e poi Carlo Romiti che trasferì da noi un laboratorio teatrale che in forma embrionale aveva già iniziato a Montaione, o Leonardo Moggi, a cui fu data la possibilità di proporre e gestire percorsi di educazione cinematografica avvalendosi di strumentazioni di un vero e proprio laboratorio video allestito grazie a finanziamenti regionali.

I. Ritiene che questa attività nei Laboratori sia stata per lei un arricchimento anche sotto il profilo artistico?

F. C. Solo sotto alcuni aspetti, direi più che altro dei rapporti umani e dello sviluppo di competenze organizzative. Io difatti ho sempre tenuto distinto il mio lavoro presso i Laboratori dalla mia ricerca artistica, che in quegli anni proseguiva senza particolari obblighi, e quindi in una situazione per me ideale. Gradualmente poi le mie mansioni si sono trasformate fino a vedermi impegnato nell’Ufficio Cultura in un ruolo che prevedeva, oltre alla parte amministrativa, una significativa partecipazione ai momenti di progettazione e gestione dei vari aspetti degli eventi culturali. Da questo punto di vista mi sono reso conto, seguendo eventi come Mercantia o la mostra su Charles Rennie Mackintosh, della complessità e della mole di lavoro, anche creativo, necessari per giungere a soluzioni lineari e chiare come io ho sempre gradito. In quel periodo poi ho realizzato anche molti manifesti per le varie iniziative pubbliche del territorio, le cui impostazioni estetiche spesso erano collegabili con le mie parallele realizzazioni artistiche.

I. Come si è svolta concretamente questa sua fase di trasformazione stilistica?

F. C. In quegli anni ho iniziato un lavoro di ricerca sui materiali e le superfici, ripartendo dal disegno puro con grafite su carta. Gradualmente ho aggiunto elementi cromatici con colori acrilici. Per rendere meno macchinoso il processo della rintelatura delle carte, ho trovato poi più funzionale sperimentare la tavola di legno. Contemporaneamente scoprivo il fascino di nuovi soggetti, spazi interni o oggetti di uso quotidiano che per me erano comunque intrisi di storie umane importanti.

I. Ci sono stati degli artisti che in qualche modo l’hanno indirizzata in questa ricerca?

F. C. In quel periodo mi sono ritrovato ad apprezzare certe scelte artistiche e filosofiche che già aveva proposto Hopper. In realtà all’inizio attingevo più ai ricordi dei miei studi di Storia dell’arte, e solo dopo essermi reso conto di una profonda consonanza nella volontà di rendere attraverso particolari atmosfere e tagli di luce la condizione sofferta dell’uomo contemporaneo, mi sono potuto accostare davvero alla sua opera salvaguardando la mia originalità

I. A parte il legame con questo illustre predecessore, ha costruito rapporti significativi con qualche collega da Lei conosciuto personalmente?

F. C. Oltre che un artista, una persona per me importante è Alain Bonnefoit, che ho incontrato per la prima volta proprio in quegli anni. Gli riconosco una eccezionale generosità e carica umana, e incarna un modo di vivere l’arte, e per certi versi anche la vita, che ai miei occhi risulta pura nel senso che vive ogni momento come tensione creativa e capacità di trasmettere tutto ciò agli altri.

I. Nel 1987, dopo questo periodo di intensa sperimentazione, Lei viene invitato ad un evento di rilievo nazionale a Firenze.

F. C. Si trattava del S.I.A.C. (Salone Italiano Arte Contemporanea) dove alcuni giovani artisti vennero inseriti dal critico Tommaso Paloscia nell’ “Onda verde”; una sorta di selezione di selezione dei più interessanti profili.

I. Potrebbe indicarci, magari facendo riferimento a qualche sua opera, quali tratti ritiene fondamentali di questo suo nuovo modo di fare arte?

F. C. La nuova modalità elaborata in quegli anni, con le naturali variazioni sopravvenute nel tempo, è ancora oggi riconoscibile nella mia opera. In sintesi si tratta di una tecnica mista che prevede l’utilizzo di una paletta di colori caldi molto ristretta ma dove i neri ed i bianchi (la luce e la penombra) giocano un ruolo fondamentale.

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Omaggio alla Rivoluzione Francese (per il bicentenario), 1989, tecnica mista su carta 78 x 96

Naturalmente diventa indispensabile equilibrare tutto con l’uso di un colore “forte” di supporto che abitualmente è il rosso cadmio scuro; colore che ormai contraddistingue la gran parte delle mie opere. Dal punto di vista della composizione ricerco sempre l’essenzialità ed il minimalismo iconografico limitando la scena rappresentata ai soli soggetti principali.

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